Yale potrebbe dire addio al private equity? Un cambio strategico potrebbe riscrivere le regole dell’investimento istituzionale. Pressioni politiche e rendimento in calo accendono il dibattito sulla sostenibilità degli asset illiquidi.
Per anni, il modello Yale è stato un faro per gli investitori istituzionali di tutto il mondo. Guidato dal leggendario David Swensen, l’endowment da oltre 41 miliardi di $ ha puntato con forza sugli investimenti illiquidi, in particolare sul private equity, convinto che l’avversione generale del mercato per l’illiquidità fosse fonte di valore e rendimenti superiori. Questa strategia, ritenuta rivoluzionaria, ha permesso all’università di ottenere rendimenti medi annui del 10,3% negli ultimi vent’anni, consolidando la sua reputazione. Tuttavia, oggi quella stessa strategia sembra essere messa alla prova da un contesto economico e politico in evoluzione.

La notizia che Yale starebbe valutando la vendita di 6 miliardi di $ in partecipazioni private equity ha fatto rumore nei mercati, sollevando interrogativi su un possibile picco di questa asset class. La dimensione e il tempismo di questa operazione stanno facendo riflettere molti investitori sulla sostenibilità a lungo termine di una forte esposizione al private equity, soprattutto in un momento in cui liquidità, flessibilità e capacità di adattamento tornano a essere priorità per le grandi istituzioni.
Il peso della politica e la sfida della liquidità
La mossa di Yale, che rappresenterebbe circa il 30% delle sue partecipazioni in private equity, non arriva in un vuoto. Le università americane sono sotto pressione. L’amministrazione Trump ha già bloccato 2,2 miliardi di $ in fondi federali a Harvard e minaccia di rivedere l’esenzione fiscale sugli endowment. La dipendenza da fondi pubblici e l’instabilità normativa costringono le università a fare i conti con la liquidità dei loro portafogli. Yale, che copre oltre un terzo del proprio budget annuale grazie all’endowment (pari a 2 miliardi di $ nel 2024), potrebbe aver bisogno di maggiore flessibilità.

Ma non è solo la politica a guidare la riflessione. La redditività del private equity si è ridotta. Le distribuzioni dei fondi sono scese all’11% del NAV, rispetto al 29% medio tra il 2014 e il 2017, mentre il mercato delle IPO e delle acquisizioni è in fase di stallo. Secondo Bain & Co., sebbene i fondi buyout continuino a sovraperformare il mercato pubblico, il loro vantaggio competitivo si sta assottigliando. Blackstone ha avvertito che l’incertezza politica e la volatilità peggioreranno ulteriormente la capacità di uscita dagli investimenti.
Un segnale per il mercato o solo una tattica?
Matt Mendelsohn, attuale CIO di Yale, ha ribadito nel 2023 l’impegno verso gli asset illiquidi, definendo la pazienza una delle chiavi del successo. Tuttavia, ha anche riconosciuto che “il successo futuro avrà un volto diverso rispetto al passato”. L’eventuale vendita di 6 miliardi di $ segnerebbe una delle più grandi operazioni mai viste sul mercato secondario, dove nel 2024 tutte le istituzioni americane hanno ceduto meno di 9 miliardi di $.
Yale dovrà affrontare uno sconto medio del 10% sul NAV, secondo Evercore, ma la possibilità di liberare risorse per cogliere nuove opportunità, magari nel credito distressed, come fece Swensen nel 2009, potrebbe valere il sacrificio. Per molti, questo movimento potrebbe rappresentare l’inizio di un ripensamento globale sull’efficacia del private equity nelle strategie di lungo termine. E se Yale si muove, il resto del mondo guarda e valuta.