Trump riaccende la guerra dei dazi: il mining di Bitcoin negli USA è a rischio collasso?

Le nuove tariffe commerciali tra Stati Uniti e Cina scuotono l’equilibrio dell’industria del mining di Bitcoin: aumenti dei costi, incertezza normativa e rischio di perdita di competitività minacciano la stabilità di un settore già in trasformazione. Le conseguenze potrebbero spingersi ben oltre i confini statunitensi, influenzando l’intero ecosistema delle criptovalute.

Quando si parla di mercati globali, spesso si pensa subito alla finanza tradizionale, agli scambi commerciali tra Stati o alle grandi multinazionali. Ma negli ultimi anni, una nuova economia digitale ha preso piede silenziosamente, fatta di blocchi, nodi e calcoli crittografici. È in questo contesto che il mining di Bitcoin ha conquistato uno spazio sempre più rilevante, trasformandosi da attività per pionieri digitali a vero e proprio settore industriale.

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Dopo i dazi il mining delle criptovalute negli USA potrebbe essere meno conveniente – crypto.it

Le apparecchiature per minare criptovalute, soprattutto quelle prodotte in Asia, sono diventate strumenti imprescindibili. Gli Stati Uniti, attratti da energia a basso costo e ambienti normativi più stabili, si sono imposti come uno dei poli principali per il mining di criptovalute. Ma oggi questo scenario rischia di cambiare drasticamente, con potenziali effetti sull’hashrate globale, sulla distribuzione della potenza computazionale e sull’accesso alle infrastrutture blockchain.

Tariffe al 34%: una scure sull’hardware minerario

Il 2 aprile 2025, la Cina ha annunciato una tariffa del 34% su tutti i beni importati dagli Stati Uniti, in risposta alle nuove misure dell’amministrazione Trump. Tra i prodotti colpiti ci sono i componenti elettronici e i dispositivi ASIC per il mining di Bitcoin. Secondo Cointelegraph, questo dazio farà aumentare notevolmente i costi per i miner statunitensi, già messi alla prova dall’halving di Bitcoin, dalla concorrenza globale e dall’aumento dei costi energetici. I dispositivi ASIC, prodotti per lo più in Cina da aziende come Bitmain, potrebbero diventare troppo costosi per molte piccole e medie imprese del settore.

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Con i dazi l’hardware usato per il mining prodotto in Asia costerà molto di più – crypto.it

Coindesk sottolinea come la dipendenza dagli impianti asiatici sia ancora forte. Le alternative in Vietnam o Malesia non garantiscono la stessa affidabilità. Di conseguenza, molte mining farm negli Stati Uniti potrebbero rimandare aggiornamenti tecnici o ridurre la propria capacità operativa. Questo ridimensionamento metterebbe a rischio la posizione di leadership americana, che oggi contribuisce a oltre il 35% dell’hashrate globale, secondo il Cambridge Centre for Alternative Finance.

Reazioni del mercato e nuove rotte per l’industria

Le tensioni commerciali hanno subito agitato i mercati: il prezzo del Bitcoin è sceso a circa 83.000 $, mentre anche Ethereum, Solana e Dogecoin hanno perso terreno. Il sentimento degli investitori, riporta ancora Coindesk, si è raffreddato per effetto dell’incertezza economica globale. Molti iniziano a guardare altrove, spostando fondi e strategie verso asset più stabili.

Nel frattempo, alcune aziende valutano trasferimenti verso regioni con normative più favorevoli, come l’Europa dell’Est o l’America Latina, dove i costi energetici per il mining sono competitivi. Una scelta che potrebbe erodere nel tempo l’influenza strategica degli Stati Uniti nel panorama delle criptovalute. Come osserva Nic Carter di Castle Island Ventures, “una rottura commerciale tra USA e Cina può minare l’interoperabilità del sistema digitale globale.”

Il punto non è solo economico: è geopolitico, tecnologico e strategico. E forse il futuro del mining di Bitcoin non sarà deciso solo dalla potenza di calcolo, ma anche da chi saprà giocare meglio le proprie carte diplomatiche.

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