Ti sei mai chiesto se una difficoltà nel camminare possa bastare per ottenere un aiuto economico? Esiste una misura che cambia la vita a tante famiglie, ma accedervi non è così semplice.
In questo articolo, partendo dalla storia di due amici, mettiamo a fuoco un nodo cruciale: quando davvero si ha diritto a questo beneficio? Se ti interessa capire come funziona davvero l’indennità di accompagnamento, questo è il momento giusto per fermarti a leggere.

Angela e Simone si conoscono da sempre. Hanno vissuto esperienze simili, soprattutto negli ultimi anni, da quando i problemi di salute hanno iniziato a farsi sentire. Entrambi hanno difficoltà motorie importanti, ma quando si sono trovati a fare richiesta per l’indennità di accompagnamento, solo uno dei due ha ottenuto risposta positiva. Per l’altro, un no secco. È stato un momento spiazzante, che ha acceso in loro una domanda: perché a me sì, e a te no?
I due amici pensavano di essere nella stessa condizione. E invece, la legge e la prassi medica vedono una netta distinzione tra chi fa fatica a camminare e chi è del tutto incapace di muoversi senza un aiuto costante. È questa la chiave di tutto. E spesso non è chiaro neanche a chi convive ogni giorno con un problema serio.
Cosa significa davvero non poter deambulare da soli
Quando Angela ha fatto domanda, si sentiva certo di avere i requisiti. Usa un bastone, si stanca facilmente, a volte ha bisogno di sedersi dopo pochi metri. Ma per l’INPS non è abbastanza. Non perché la sua sofferenza non sia reale, ma perché non rientra nella definizione legale di invalidità totale. In poche parole, riesce comunque a muoversi, anche se con difficoltà. E questo basta per escluderlo dal beneficio.

Simone, invece, ha bisogno di essere aiutato in tutto. Non riesce ad alzarsi dal letto, a vestirsi, a lavarsi. Ogni gesto quotidiano è possibile solo grazie alla presenza continua di un’altra persona. È per questo che la sua richiesta è stata accolta. Per avere diritto all’indennità di accompagnamento, non basta essere limitati: bisogna essere del tutto dipendenti.
La legge parla chiaro: il contributo spetta solo a chi non può deambulare senza assistenza o compiere in autonomia gli atti quotidiani della vita. Non si guarda solo alla diagnosi, ma a quanto quella diagnosi limita davvero la vita di una persona. Angelo ha una patologia grave, ma riesce ancora a prepararsi un pasto. Simone no, e questa differenza è decisiva.
La valutazione medico-legale: dove tutto si decide
Il percorso inizia dal medico curante, che invia all’INPS un certificato dettagliato. Poi arriva la visita della commissione ASL, che valuta ogni singolo caso. Non si tratta solo di verificare una malattia, ma di capire quanto quella malattia incida sull’autonomia del paziente. E spesso la decisione dipende da dettagli che sembrano piccoli, ma fanno tutta la differenza.
La giurisprudenza, come la sentenza della Cassazione n. 15882 del 2015, ha chiarito che difficoltà nel camminare non equivale a incapacità totale. Ecco perché tanti si vedono respingere la domanda. Anche chi usa un deambulatore, se riesce comunque a spostarsi in autonomia, può non avere diritto all’accompagnamento.
Chi, invece, non può svolgere nessuna attività da solo, rientra nei criteri stabiliti. Come nel caso di Simone, la cui condizione ha richiesto fin da subito la presenza costante di un familiare. È su questo che si basa tutto: sull’impossibilità concreta di vivere da soli, senza supporto continuo.