Può accadere che nel presente anno di imposta, il lavoratore superi la soglia reddituale del regime forfettario. Quali sono gli effetti delle regole vigenti.
È difficile dire se si sta aprendo (o si è aperta) una crisi del lavoro dipendente. In fondo, sono ancora in piedi le strutture “simbolo” del cosiddetto lavoro salariato, come le fabbriche, e via via quelle realtà che comprendono lavoratori assunti tout court dall’azienda. Certo è che il mercato del lavoro è in fortissimo cambiamento e non può non avere ricadute, anche preoccupanti, sull’altro mercato, quello dei lavoratori.
Il mercato del lavoro appare sempre più come il paniere ISTAT sui beni di consumo: si assiste infatti a lavori che escono dalla vita di una società e lavori che entrano e delineano nuovi percorsi esistenziali di una nazione. La tecnologia rappresenta indubbiamente il fattore principale che plasma il quadro professionale e ne decreta – occorre ammetterlo – utilità e obsolescenza di diverse attività occupazionali.
Il cammino di adeguamento a compagini che vivono sempre continue riprogettazioni è un cammino lento, e sovente il “sistema” ricorre più a meccanismi di autodifesa che di riorganizzazione. Pertanto, nel novero della flessibilità, si è agito sul terreno del lavoratore, rendendo – in fondo – un elemento come la busta paga, un’istanza sempre meno scontata. Il calo delle retribuzioni, inoltre, stimola i lavoratori a ricercare seconde e successive attività per integrare le entrate entro limiti accettabili.
Negli ultimi anni, dunque, si è assistito all’ascesa delle partite iva, la quale ha coinvolto anche la consistente parte dei piccoli lavoratori autonomi. Di fronte ai noti esborsi che comporta la titolarità di una partita iva, lo Stato ha varato un regime forfettario, agevolato, per favorire nuove iscrizioni. L’aspetto distintivo di questo regime è legato alla presenza di un’unica aliquota di prelievo fiscale.
Con gli aggiornamenti della Legge di bilancio 2023, la tassazione agevolata del 15% si riduce al 5% per i primi 5 anni di attività. La deduzione delle spese viene applicata con il metodo forfettario e non analitico, ossia voce per voce: si ricorre al coefficiente di redditività, variabile a seconda del codice Ateco di riferimento dell’attività (presumendo i costi medi dichiarati da ogni settore).
A tale semplificazione, si aggiunge, per i contribuenti, il fatto di non dover addebitare l’iva nella fattura ai clienti; di non detrarre l’iva sugli acquisti; di non liquidare l’imposta e dunque di non presentare la comunicazione annuale Iva; di non registrare le fatture emesse e ricevute; di essere esonerati dagli obblighi della scritture contabili. Al contempo, sussistono gli obblighi: conservazione e e protocollo delle fatture d’acquisto; certificazione dei corrispettivi; integrazione delle fatture per le operazioni di cui risultano debiti di imposta, con aliquota e relativa imposta.
Attualmente, la soglia per aderire al regime forfettario è salita da 65mila a 85mila euro di reddito annuo. In caso di superamento del limite, a partire dall’anno di imposta successivo rispetto a quello in cui si è verificato tale superamento, viene automaticamente attivato il regime ordinario, con i conseguenti obblighi generalmente previsti, dall’Iva alla tenuta delle scritture contabili.
Se si supera la soglia di 100mila euro, per la norma antielusione, il ripristino al regime ordinario è automatico e immediato. Il contribuente può compensare questo errore con l’emissione di note di credito per rettificare il compenso relativo all’Iva al 22%, per poi emettere una nota di debito con Iva. Il ripristino comporta, altresì, l’applicazione obbligatoria delle ritenute d’imposta, ma secondo il chiarimento dell’Agenzia delle Entrate, soltanto una volta superato i limiti.
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