Un nuovo studio realizzato dall’Università delle Nazioni Unite denuncia l’incredibile “buco nero energetico” causato dai Bitcoin: ecco di cosa si tratta.
Di recente, lo scienziato Kaveh Madani dell’Università delle Nazioni Unite ha studiato l’impatto ambientale della moneta virtuale più usata nel mercato internazionale del trading, ovvero il Bitcoin. E il risultato è davvero impressionante: si tratta infatti di una sorta di “buco nero energetico” che, in un anno, consuma il corrispettivo di oltre la metà di tutta l’elettricità prodotta in Italia o, per fare un altro esempio concreto, tanta acqua quanto risulta necessaria a 300 milioni di contadini dell’Africa subsahariana.
Non è il primo studio a lanciare l’allarme: negli anni, infatti, sono stati numerosi gli osservatori autorevoli e sparsi in tutto il mondo ad allertare riguardo all’impatto letteralmente devastante che il processo del cosiddetto mining per la produzione della criptovaluta ha sull’ambiente e sull’ecosistema: per rendere l’idea della portata, basti pensare che solo per bilanciare le emissioni prodotte dai Bitcoin occorrerebbero 3,9 miliardi di alberi in più sul pianeta, pari al 7% della foresta amazzonica.
Tuttavia i Bitcoin, che rappresentano solo una delle criptovalute attualmente utilizzate nei mercati finanziari e di trading in tutto il mondo, continuano a crescere e la loro presenza nell’economia mondiale assume sempre maggior peso ed importanza per investitori, brokers e traders. E per assurdo, anche per quelli “impegnati” a far prosperare la cosiddetta “Green Economy”.
La procedura del “mining” ed i consumi reali per produrre Bitcoin
Il “mining” è un processo informatico alla base del funzionamento della criptovaluta del Bitcoin: in estrema sintesi, serve a consentire ed a validare le transazioni effettuate tramite la moneta virtuale e garantisce all’intera struttura di rete del Bitcoin di poter sussistere e continuare a crescere. La maggior parte dell’energia utilizzata per le processioni delle operazioni di mining deriva dalle fonti fossili.
Secondo lo studio del dottor Madani, il 45% dell’energia totale utilizzata deriva infatti dal carbone mentre il 21% da gas naturale, con la maggior parte delle attività svolte per le operazioni informatiche concentrata sul territorio cinese. Gli ultimi dati al momento disponibili sono quelli del periodo tra il 2020 ed il 2021 e riportano un consumo pari a 173,42 TeraWatt ore di elettricità.
Come dicevamo in apertura dell’articolo, per fare un raffronto tutta l’Italia ne produce 295, ovvero meno del doppio. L’impronta ambientale per la produzione di Bitcoin, dunque, è pari a 190 centrali elettriche a gas naturale e, se la includessimo nella classifica dei consumi di energia delle Nazioni del mondo, risulterebbe al ventisettesimo posto, prima del Pakistan, in cui vivono 230 milioni di persone. Chissà quindi se, a conti fatti, si tratta davvero di un buon “investimento”.